Venerdì 11 giugno 2004





In campagna, alla Castagnola. Giornata caldissima. Dall'ultimo incontro non è passato neppure un mese, ma è per via del baccalà che abbiamo stretto i tempi: già siamo oltre il limite. Di quello nuovo se ne parlerà in autunno.
La questione del cottimo, la volta scorsa, ha mosso le acque. Partecipazione corale; tutti che raccontavano di proprie esperienze: casi particolari ma facilmente riferibili a un sistema generale. L'universale ha un effetto rassicurante; invece il museo delle cose e delle esperienze personali continua a essere vissuto come un limite. E non serve spiegare che, non essendo l'universale il risultato di una somma di casi, la storia di un caso è una delle strade possibili per arrivarci.
Dopo il fervore dell'ultimo incontro mi aspetto un'orgia oratoria. Invece niente; neppure dopo caffè e grappa. Tra noi ci sono intrattenitori esperti: conoscono le regole del porgere, l'importanza delle attese, l'astuzia del non scoprirsi. Se loro tacciono il resto del gruppo si allinea, cauto. E' sul campo, in fabbrica, nel reparto, nei rapporti con i compagni di lavoro che hanno conquistato il loro prestigio; non sono polli di batteria. L'investitura politica o sindacale, se mai c'è stata, è venuta piuttosto a ratificare. "Se dentro scoppiava un casino, che ti chiedevi cosa fare, l'occhio correva a dove lavorava lui. Perché il segnale veniva da lì".
A pranzo, discutendo del museo o di altro, il loro gioco abituale non cambia, salvo l'introduzione di qualche variante. Come ad esempio che alcuni di quelli che in genere vengono messi sotto cercano di conquistare spazio rimettendo un po' in gioco gli assetti del gruppo. Fatica improba. Lino, uno di quelli che più spesso viene messo sotto, proprio per questo freme dalla voglia di rifarsi. Ama la provocazione e, per meglio difendersi, si finge un semplice, un Bertoldo. Ma è consapevole delle difficoltà della sfida e i suoi interventi son sempre meditati.
"Non so - dice in dialetto - come possa esistere un museo come quello che diciamo se non ci mettiamo dentro la puzza ("a spussa") e il rumore ("u casin") che tutto il giorno avevamo nelle orecchie e nel naso". Fa una pausa e - in italiano, rivolto a me che gli siedo vicino - aggiunge una piccola provocazione "ho letto che una volta, a Venezia, a una mostra di arte moderna, insieme al biglietto davano una scatola di merda...". Vuol far vedere che lui sa, legge le cronache artistiche. Attorno si sorride. Lino capisce di aver fatto centro e si ritira a godersi il successo.
A questo punto ho raccontato che in Gran Bretagna esiste un museo della prima guerra, dove sono state ricostruite in modo realistico le trincee dell'epoca con tanto di fango, puzza e simili. Per dire che vi sono progetti espositivi che si sono confrontati col problema posto da Lino, che lo hanno giudicato importante. Così faccio il mio mestiere di insegnante e penso di valorizzare Lino; ma sbaglio frequenza. La questione non è se puzza o casino siano rappresentabili ma che posto hanno nella loro storia di operai. Di questo infatti si occupa la discussione che è seguita. Le parole, gli accenti sono distaccati. Si ride ma sento anche parole dolenti, che alludono a condizioni che già nel momento in cui venivano vissute - e non solo col senno e la sensibilità di oggi (superiore a quella di un tempo, dicono) - apparivano oscene.
Gli episodi raccontati hanno sicuramente dato ragione a Lino. Là dentro, puzza - che poi sono esalazioni, vapori, fumi, polveri ecc. - e rumore non sono riducibili ad uno sfondo. A parlare della struttura del reparto, della macchina, del prodotto da eseguire, della bolla, si finisce per tacere delle condizioni generali in cui si svolge il lavoro. Che invece sono decisive nel determinarne il peso - e quindi "la voglia di vivere" che ad ognuno resta oltre l'orario. Perché dice uno, di questo si tratta: se la sera ti rimaneva solo la voglia di andare a dormire o no.
Elio è uno capace - incontrandoti per strada - di iniziare a raccontarti una storia - che nel successivo sviluppo si rivelerà una barzelletta - senza neppure dirti "oh, sei qui", o come se fosse il seguito di un discorso iniziato l'ultima volta che vi siete visti. Storie - non è importante se personali o successe a un conoscente o frutto di invenzione - che esplodono nel finale con lui che ti concede solo un impercettibile ammiccamento degli occhi, come dirti "hai capito?". Così, ironico, Elio - da sempre - racconta la miseria della vita come una fatalità e l'uomo che si ostina a combatterla come un paradosso; da ridere o quasi. La sua storia? Non fa eccezione, dice. Tre anni di corso apprendisti tra il '45 e il '48. " Si chiamava corso progresso - era il nuovo spirito dell'epoca - ma non dava più il diritto automatico al posto in fabbrica come succedeva ai tempi del Fascio". E lui, a scuola finita, aveva girato per 4 anni da una "fabbrichetta" all'altra compresa una fonderia "che come farsi il culo non era male". Poi, alla fine del 1952, l'Ansaldo, l'Elettromeccanico. "Mi dicono vai là, alla caldereria. Sapevo che facevano caldaie. Mi avvicino al reparto, un capannone, e sento un rumore, brun, brun, brun. Apro la porta: un inferno dantesco, fumo, scintille, un casino impressionante. Ho richiuso di colpo, trac; un salto indietro. Poi, piano piano, ho aperto di nuovo e sono entrato. Lì dentro, tra il fumo, c'era uno che aveva visto la scena. Mi fa: non lasciarti impressionare, vedrai che poi ti abitui. Intanto arriva il capo e mi spiega: qui i calderai, là i saldatori, laggiù i tracciatori. Ma c'era tanto fumo che non vedevo niente. Lui continuava a parlare e io lì davanti, stordito. Poi, attraverso il fumo, vedo uno lungo, capelli bianchi, magro. Lo conoscevo di vista; stava dalle parti di casa mia. Allora gli parlo: ti eh, quanti anni l'è che t'è chi?"
"Saià unna trentenna d'anni"
"Ma cumme se fa a passà trent'anni chi?".
E quello: "Ti vediè, ti vediè".
Le parole di Elio hanno materializzato davanti a tutti l'operaio in cui ognuno di loro si è rispecchiato nel momento in cui è entrato per la prima volta in fabbrica. L'operaio che loro sarebbero diventati 30 o 40 anni dopo era già lì. Una sensazione che sembra tutti abbiano provato: dunque sarò così anch'io, si erano detti. E ancora oggi quel ricordo è denso di sofferenza. Elio in quella fabbrica ci voleva andare, ci aveva già lavorato suo padre e quel giorno, quel suo primo giorno alla caldereria, era il punto di arrivo non di partenza. Ma era giovane e gli era difficile accettare l'idea che la persona che aveva di fronte era lui stesso, sia pure qualche decina di anni più tardi.
Lino a lavorare in una fonderia aveva cominciato tra i 12 e i 13 anni tra il '46 e il '47. "Lavoravo e piangevo. Otto ore: una eternità. Entravamo la mattina alle 7 e il mezzogiorno non veniva mai". Nella fabbrica vera c'era entrato 10 anni dopo, a 23 anni, grazie a un cugino preventivista. Un reparto protetto, un capo benevolente ma lui addosso aveva l'incertezza. Non era andato oltre le elementari e temeva che la prova svelasse la sua pochezza, di non saper fare il lavoro assegnato. Aveva imparato a tornire l'ottone ma lì si lavorava il ferro, un altro mondo. Per la messa a punto della macchina doveva farsi aiutare ed era tanta la paura che potessero mandarlo via che se restava senza lavoro correva subito a farsene dare un altro. Uno più vecchio che lavorava vicino a lui gli aveva detto una volta che sembrava un pulcino bagnato. Anche se aveva quasi dieci anni di lavoro alle spalle gli capitava di piangerci sopra. "Non era solo per il lavoro; è che capivo che ormai ero chiuso, per sempre. Avrei fatto volentieri il camionista, il camallo, lavorare in porto, alla chiamata, anche con l'acqua d'inverno e il sole d'estate. Ma più di tutto avrei voluto essere fuori, stare fuori; non lì chiuso".
Luigi, quando era stato assunto nel settembre del '62, aveva 15 anni e mezzo; veniva dalla scuola professionale. "In confronto a quello che ho trovato in fabbrica la scuola era un gioco, sia che saldassi con l'autogeno che con l'elettrico; stupidate. Appena entrato invece ci avevano dato delle bacchette enormi, impressionanti. Per proteggerti gli occhi c'era la maschera ma per il fumo... Se ti soffiavi il naso era una tragedia: tutto nero; era il fumo che respiravi; nausea, bruciore. Ma lì era considerato normale. Niente a che fare con l'immagine del saldatore che ci avevano dato a scuola: un operaio di mestiere, di qualità. Invece ci tenevano sotto, e di brutto. Sul lavoro avevo una giacca - il saldatore deve portare la manica lunga - che d'estate da blu diventava bianca, ma proprio bianca dal sudore che la impregnava durante il giorno. Noi più giovani allora sopportavamo ma anche tra gli adulti la linea era che quella minestra bisognava mangiarla. E poi eravamo ragazzi; era tutto nuovo. Neppure sapevamo fare i conti sulla bolletta; erano i più grandi a farceli. Noi solo capaci, per fare mezza festa al sabato, di lavorare tutti gli altri giorni per otto ore e mezza, a volte anche nove".
Paolo il suo primo giorno, alla San Giorgio, lo ricorda "come fosse ieri". Luglio del 1947: "allora l'inizio si chiamava tirocinio e per imparare ti mettevano vicino al maestro, un operaio esperto, più anziano, che ti insegnava". Paolo era stato fortunato: il suo maestro era "un aggiustatore, molto capace, con una certa età ma senza la mentalità del vecchio maestro - perché c'erano anche quelli - che, se sapevano, non t'insegnavano. Lui invece tutto quello che sapeva, nel modo che poteva esprimerlo, me lo ha insegnato". L'aggiustatore allora era importante; le macchine erano vecchie, "molto artigianali". Ma più del primo giorno Paolo ricorda il clima: "Era ancora dopoguerra, c'era euforia; le fabbriche erano "nostre". C'erano discussioni, aperture, passione. I consigli di gestione e gli esperti di reparto ti aiutavano a entrare negli aspetti economici del lavoro. E poi di lavoro non ce n'era granché, non eri pressato. Certo c'era il viaggio da Sori per Sestri Ponente e il ritorno. Voleva dire svegliarsi alle 5 e mezza e tornare a casa alle sei mezza, sette del pomeriggio ma tutto il resto funzionava, era quasi attraente. Nessun confronto possibile con quelllo che hanno trovato i ragazzi che sono entrati gli anni dopo. Anche la chiusura della fabbrica, nel '49 o nel '50, è stata una esperienza importante. L'occupazione, la gente, i negozi che portavano i viveri, la solidarietà delle altre fabbriche, l'aiuto tra di noi: c'era quello che aveva meno bisogno e prendeva meno roba. Si chiama fratellanza, no? Cose che ti segnano per sempre...".
La stessa euforia del dopoguerra che anche Ezio ricorda. Nel '46, aveva 23 anni: a lavorare aveva cominciato a 13, in guerra era andato a 20, partigiano a 21. Ezio conosceva il mondo ma quando alla fine del '46 aveva preso a lavorare all'Allestimento Navi, a Sampierdarena, tutto gli era apparso nuovo. "Sui moli della Fiumara un universo di 2 o 3 mila persone, sembrava di essere in Unione Sovietica; noi almeno la immaginavamo così. Capo del personale, comunista; capo reparto, comunista. Gaggero, lucidatore del mio reparto, fratello di Andrea, prete, partigiano e comunista. Sempre in riunione, sempre politica. Lavorare poco e niente". Piuttosto riunioni, lettura dei testi sacri del marxismo, discussioni: autodidatti entusiasti per ideali splendidi. Ezio era segretario di una cellula del Partito comunista, il vero cuore pulsante dei moli e dei capannoni
Poi, neppure troppo lentamente, le cose erano cambiate. Sui moli a cancellare il lavoro e a disarmare l'operaio era arrivata la crisi: economica, aziendale, di settore. "Eravamo i primi a essere convinti che la crisi ci fosse davvero. Sapevamo che erano necessari ordini, armatori, capitali. Volevamo collaborare ma era il contrario di quello che voleva la dirigenza. Avevamo appena finito una guerra che abbiamo dovuto cominciarne un'altra: per tenere aperte le fabbriche, per non licenziare nessuno, per fare piani per trasformare le aziende. C'erano i consigli di gestione, ma non contavano niente. Gli operai erano un'arma che avrebbe potuto essere utile anche ai dirigenti, ma loro l'hanno rifiutata, derisa".
"Volevano schiantarci, annullarci" ha detto Lino. E qui sono d'accordo tutti : dalla fine della guerra per 20, 25 anni, loro, i padroni, "hanno solo cercato di metterci in ginocchio, tagliarci". C'entra col fumo e la puzza? C'entra. La polvere che ti assicura la silicosi in poco tempo, i vapori dei reparti di zincatura, dei solventi dei mastici, delle resine, l'acqua fredda degli spogliatoi, i frammenti della lana di vetro, il minio le pitture e ancora polvere, polvere c'entrano eccome. Quando esci da lì dentro, rimbambito, sordo, brutalizzato, stanco, sei anche convinto che quella fabbrica-galera sia una condizione necessaria, avvolta dalla fatalità. Alla quale puoi sottrarti solo cambiando reparto o addirittura lavoro. Elio: "Arrivavi a casa e non avevi più voglia di leggere, di fare qualcosa; mangiavi e andavi a dormire. Allora cercavi di farti mettere nel reparto dove ci fosse meno polvere, meno casino. Era un destino e al destino potevi solo sottrarti cercando una soluzione individuale, personale. Il risveglio è venuto dopo; molto dopo. Non perché le cose fossero peggiorate; anzi. E' che a un certo punto le cose sono sembrate insopportabili. Un sentimento che è quasi esploso, come se da un momento all'altro, di quelle cose che duravano da una vita, non se ne potesse più. Da dove era nato? Forse dal Vietnam ma forse, più di tutto, dalla Francia, il maggio. Anche l'entrata in fabbrica di gente giovane ha avuto il suo peso.
"In precedenza, tra noi, specie quelli più politicizzati, l'idea che era possibile cambiare, c'era; magari non a breve, ma c'era. Era un ottimismo che ci veniva dalla politica: cambierà, dicevamo. Ma i più - anche qualcuno di quelli che dicevano cambierà - pensavano l'opposto. Erano ripiegati su se stessi, convinti che non ci fossero alternative: lavorare il meno possibile e guadagnare il più possibile. Non è che si rifiutassero di lottare o di scioperare, no. Se c'era da uscire non dovevi metterti a pregare. Però dicevano: guardate ragazzi, ormai moriamo così. Non c'è nessuno che ci dia una mano. Quelli che l'hanno nel culo siamo noi e gli altri, tutti, si fanno i cazzi loro.
"Poi nel '68, '69 è nato quel sentimento che basta, era venuto che si poteva cambiare. Ma di nuovo non è che tutti fossero d'accordo. Perché si erano come rovesciate le parti. E tanti che prima erano gli ottimisti, che dicevano cambierà, nel momento in cui la gente, i giovani hanno cominciato a premere l'hanno vissuta come una sconfessione, una critica del loro operato di prima. Come dire: fino ad oggi non avete fatto niente per migliorare le cose e per questo da ora ci pensiamo noi. Da lì è nato lo scontro, duro. Perché tra quelli che erano dentro da più tempo c'era gente che quei problemi aveva cercato di affrontarli, ne aveva parlato, sofferto. E a sentirsi dire quelle cose s'è offesa, rivoltata. Alla fine però un po' di loro hanno capito e hanno collaborato. E dall'altra parte anche il padrone ha capito. Se voleva fronteggiare quello che stava succedendo doveva concedere. Così, ad esempio, dopo che per anni il pezzo che arrivava dalla fonderia lo mandavano in un repartino dove operai con niente addosso lo pulivano con getti di sabbia e, anche se quel repartino era tutto fumo e polvere, c'era la coda per andarci a lavorare, cioè a prenderci la silicosi sicura, perché c'era una buona indennità, sta storia è finita. Si è cominciato a dire che per vivere meglio, di più, non bisognava monetizzare la salute ma tenere duro. Così il padrone ha costruito due cabine e almeno il peggio lo ha levato. Due cabine che non gli costavano niente, che avrebbe potuto fare anni prima ma che non le aveva fatte. E' persino difficile capire perché. Avevano quell'idea che l'operaio per tenerlo sotto era meglio dargli niente che poco. Così anche per la verniciatura, la zincatura...".
Rappresentazioni realistiche: "l'inferno dantesco" di Elio, la "galera" e i "luoghi di mortificazione" di Ezio. L'irrisione e lo sfregio: 8 rampe di scale, da salire due volte al giorno, per arrivare all'ultimo piano del palazzo, agli spogliatoi - dove il cantierista all'entrata indossava gli abiti da lavoro per toglierseli poi all'uscita - "senza riscaldamento e con le docce, fredde, a 100 metri di distanza". Ma anche l'immateriale: la consapevolezza della gratuità e del carattere solo punitivo della condizione che gli veniva inflitta e, ancora, "il sentimento, non la speranza - che vuol dire che magari una cosa succederà ma non si sa quando - che era possibile cambiare". Immateriale ma non troppo la questione del "primo giorno di lavoro". Non solo la scoperta, repentina, della durezza del lavoro - molti ne avevano già esperienza - ma della sua eternità. Elio entra nel reparto infernale e ha una reazione elementare, immediata: arretra e richiude la porta. Poi, subito dopo, proprio lì nell'inferno ha i primi incontri con i suoi simili: l'operaio che gli dice "non farti impressionare, poi ci si abitua" e l'altro che gli confessa di essere lì da 30 anni. Più avanti verranno la solidarietà delle guerre combattute insieme, gli scherzi, la compagneria. Non rendono più accettabile quell'ambiente orribile; semplicemente gli sottraggono l'estraneità. Quel luogo siamo noi perchè ci siamo dentro noi. Ma ciò non toglie che ognuno di loro, riferendosi alla fabbrica, abbia usato termini come "manicomio", "incubo", "carcere", "mattatoio", "vergogna", "grosso cesso", "gran casino" e simili.
Per tutti il primo o i primi giorni restano importantissimi. Tutti ne ricordano la data. Sono il confine tra due mondi: da una parte la scuola, i lavori quotidiani più o meno pesanti che tutti già conoscono, dall'altra il lavoro e la disciplina industriale, la fabbrica. E' un confine che tutti trovano difficile ("quasi impossibile") da ricostruire tanto il dopo li ha plasmati.
Tra le conclusioni di oggi c'è che si dovrebbe dedicare una stanza del museo a "il primo giorno di lavoro". Dove ci siano le infinite prima volta di chi è entrato ragazzo in una fabbrica sapendo che ne sarebbe uscito da vecchio. L'idea è passata senza che nessuno abbia chiesto che razza di oggetti ci andrebbero messi dentro.


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


*


Indice

Venerdì 23 gennaio
2004

Sabato 14 marzo
2004

Sabato 17 aprile
2004

Venerdì 14 maggio
2004

Venerdì 11 giugno
2004

Sabato 10 luglio
2004

Giovedì 26 agosto
2004

Sabato 9 ottobre
2004

Sabato 13 novembre
2004

Sabato 4 dicembre
2004

Sabato 18 dicembre
2004

Postfazione
2007


Frammenti di un
museo virtuale
L'album di Ezio Bartoli
Il taccuino di Pippo Bertino
La memoria di Gino Canepa



*

HOME

*

quaderni.net

 
amministratore
Claudio Costantini
*
tecnico di gestione
Roberto Boca
*
consulenti
Oscar Itzcovich
Caterina Pozzo

*
quaderni.net@quaderni.net